Il ruolo dell’amministratore condominiale, figura centrale nella gestione e nell’organizzazione di un condominio, è strettamente legato alle responsabilità assunte nel nome e per conto dei proprietari delle singole unità immobiliari. Questa posizione comporta la percezione di un compenso, il quale, secondo la normativa vigente, deve essere comunicato in maniera obbligatoria al momento dell’assunzione dell’incarico.
L’incidenza di questo compenso rappresenta una spesa condivisa, affrontata nell’interesse comune del fabbricato, e la sua ripartizione avviene in modo proporzionale, basandosi sul valore millesimale delle diverse unità immobiliari, come previsto dall’articolo 1123 comma 1 del codice civile.
L’attenzione si concentra su una recente ordinanza della Corte di Cassazione, datata 16 gennaio 2024 e numerata 1704, che getta luce su un caso in cui l’amministratore avrebbe svolto attività al di fuori dei confini del suo mandato, operando esclusivamente nell’interesse di alcuni proprietari anziché per il bene comune.
In base alla descrizione dei fatti emersa durante la vicenda, le attività svolte dall’amministratore avrebbero superato i limiti del mandato conferitogli e sarebbero state eseguite a favore di un ristretto gruppo di proprietari. In conseguenza di ciò, la spesa corrispondente a tali attività è stata addebitata esclusivamente a tali condomini e non è stata inclusa nelle passività generali del condominio.
La controversia, quindi, ruota attorno alla questione di quale proprietario debba assumersi gli oneri relativi a un’attività dell’amministratore destinata esclusivamente a servire un singolo proprietario. La Corte di Cassazione, insieme ai giudici di merito, è chiamata a risolvere questa delicata problematica, stabilendo chi debba sostenere i costi connessi a compensi e spese vive quando l’attività dell’amministratore esce dai limiti dell’interesse comune per concentrarsi esclusivamente sul singolo condomino.